Fiat senza fiato

13.12.2008 13:57

di Manuele Bonaccorsi

su Left del 12/12/2008

La beffa e il danno: la Sevel di Castel di Sangro mette fuori mille precari e impone ritmi più alti. Left è venuto in possesso dei fogli di saturazione, documenti segreti della casa torinese sui tempi alla catena di montaggio: su sette ore e mezza solo 4,44 minuti per respirare. Un paraurti da prelevare e fissare con tre viti ogni 46,8 secondi. Per 270 volte. «L’azienda vuole approfittare della crisi per riorganizzarsi», dicono gli operai. Il 12 dicembre inizia la cassa integrazione per seimila metalmeccanici. Altrettanti a rischio nell’indotto

Hanno rinunciato alle ferie, hanno lavorato di notte - dalle 22,15 alle sei meno un quarto - e la domenica pomeriggio e quasi tutti i sabati. Per far correre la catena a un ritmo forsennato, battere ogni anno il record di furgoni Ducato prodotti e raggiungere il traguardo dei 300mila. Ora la crisi cambia le carte in tavola. I precari vanno fuori tutti, sono oltre mille, in attesa che la Sevel di Castel di Sangro, in provincia di Chieti, riprenda la sua corsa, fino a ieri inarrestabile. A chi rimane, però, la Fiat ha fatto un regalo: ha aumentato la velocità del lavoro. Prima a luglio, poi il 6 ottobre, ha consegnato ai delegati un plico di migliaia di fogli, coi tempi necessari a svolgere innumerevoli semplici operazioni. Si chiamano “fogli di saturazione”, perché la saturazione è il “tempo attivo”, quello impiegato in media dal lavoratore della linea c6, postazione 6, della Ute 11 per montare il paraurti anteriore sul modello 2.500: 30 secondi per mettere tre viti e un dado, un’operazione da ripetere 230 volte, 46,8 secondi per prelevare il paraurti giusto da uno scaffale e fissarlo tramite tre viti, per 270 volte. In totale 445,563 minuti di lavoro, solo 4,44 minuti in 7 ore e mezza per riprendere il fiato. Il lavoro, si dice in linguaggio tecnico, è “saturato” al 99 per cento. Tra un’operazione e un’altra non c’è soluzione di continuità. Oltre alla beffa, però, c’è il danno: i tempi di lavoro - qualcuno direbbe la quantità di valore aggiunto estratto, lo sfruttamento - aumentano proprio ora, quando la Fiat, a causa della crisi, mette fuori oltre mille giovani precari. Molti di loro si sentivano a un passo dalla mèta del posto sicuro, la Sevel spingeva duro, la produzione cresceva, mentre a Melfi o Pomigliano si andava in cassa integrazione qui si anticipava il ritorno dalle ferie e si chiamavano in trasferta lavoratori di altri stabilimenti. E se qualcosa andava storto, un problema tecnico o uno sciopero, si chiedeva agli operai la doppia battuta: smonti alle 22,15, rimonti otto ore dopo, alle 5,45. Chi veniva da più lontano, dalla Puglia o dalla Campania, non aveva neppure il tempo di tornare a casa: rimaneva a dormire in auto nel piazzale, davanti ai cancelli. Ma il posto sembrava sicuro. Nessuna remora a fare un figlio, o a comprar casa, allora. Eppure in solo due mesi, alla Sevel della Val di Sangro, il mondo è cambiato. Chi sta dentro lavora più in fretta, chi sta fuori, sono fatti suoi. Per interinali e tempi determinati, quelli che a Lanciano e Atessa chiamano i Cat, non c’è nessuna cassa integrazione. Resta solo la disoccupazione. E l’amaro in bocca di un tradimento. «Perché abbiamo permesso certe cose?», si chiedono i delegati della Fiom, fino a pochi mesi fa impegnati nel contrattare la flessibilità: sabati lavorativi, straordinari, assunzione di lavoratori precari.
Siamo venuti in possesso di alcuni fogli di saturazione, documenti riservati, che la Fiat consegna solo pochi giorni prima dell’entrata in vigore ai delegati sindacali, migliaia di fogli che spiegano con precisione scientifica il modo in cui gli operai dovranno adeguarsi al movimento della catena, sempre più veloce. Nella postazione 7, Ute 8, del reparto di montaggio della Sevel, i movimenti sono calcolati al millesimo di secondo: per ruotare l’albero primario e fissare il cambio ci vogliono 31,86 secondi. L’operazione va svolta per 413 volte durante le otto ore di lavoro, in totale 219 minuti; 1,2 secondi servono per premere un pulsante, poco più di due secondi per leggere il cartellino, 6,48 secondi per fissare il cambio del motore 2.500, 225 volte nell’arco della giornata. Si lavora al 94 per cento della saturazione, rimangono 26 minuti, il 5,93 per cento del tempo di lavoro, per sbruffare, grattarsi dietro la schiena, dare uno sguardo alla vicina mentre lei non ti vede, per riprendere da terra la vite che è scivolata dai guanti unti. Quando l’operaio dell’Ute 8, postazione 7, riceve questo comando è il 6 ottobre del 2008, ed è appena iniziato il turno di mattina, sono le 5,45. Solo pochi giorni dopo, il 31 ottobre, per la prima volta dal 1981, quando è nato lo stabilimento, 120 interinali ricevono una comunicazione: dopo 9, 12 o 18 mesi di rinnovi continui, lunghi 3 o 6 mesi, il contratto dell’agenzia di somministrazione non viene rinnovato. È solo l’inizio. A novembre rimangono fuori dai cancelli altri 150 interinali. Dall’1 al 3 dicembre si rimane tutti a casa, la Fiat concede tre giorni di permesso individuale, un diritto contrattuale, in questo caso “concesso per obbligo”. Poi, il 12 dicembre, comincia la cassa integrazione per gli oltre 6mila metalmeccanici della Sevel. Contemporaneamente smettono di indossare la tuta blu altri 360 interinali. Con loro “scadono” anche 200 Cat, operai che hanno già fatto la gavetta da interinali per 24 mesi, molti prossimi all’assunzione definitiva. Altri duecento usciranno a fine gennaio, quando la fabbrica, tornerà a fermarsi per un’altra settimana di cassa integrazione ordinaria. Sono 1.000 in totale, 1.400 calcolando la mancata sostituzione degli operai di Pomigliano e Melfi, chiamati alla Sevel lo scorso aprile e rimasti in Abruzzo fino a luglio. Duemila, contando i 600 lavoratori precari che perderanno il posto nell’indotto. Altri mille rischiano il lavoro nel comprensorio industriale della Val di Sangro, dove si trovano anche gli stabilimenti della Honda e di multinazionali della meccanica come l’americana Honeywell (turbocompressori, 700 lavoratori), la tedesca Pierburg (pompe ad acqua e a olio, 220 operai), la Denso (motori, 1.000 addetti). In tutto l’Abbruzzo rischiano il posto in 6mila. Solo nel chietino il reddito medio potrebbe scendere, nel 2009, da 1.150 a 900 euro. Mentre accade tutto questo, in attesa che scada il suo contratto, l’interinale Alessandro, 22 anni, racconta di 7 secondi rubati: «Fino a ottobre avevo una cadenza di 1,3 minuti, per una produzione di 450. A ottobre la cadenza è scesa a 56 secondi, la produzione aumentata a 495. La Fiat mi ha levato sette secondi per ogni ammortizzatore posteriore montato», più di uno al minuto per otto ore, con mezz’ora di pausa mensa e due stop di venti minuti a metà giornata.
«Prima che venisse la Sevel questa zona la chiamavano la Valle della morte, per la povertà della sua gente», spiega Marco Di Rocco, segretario provinciale della Fiom Cgil. «Lo Stato allora propose di piazzare in valle un’azienda molto inquinante, la Sangro chimica, ma i cittadini si mobilitarono per impedirlo. Qui molti operai sono ancora metalmezzadri: lavorano in fabbrica ma vivono in campagna e nel tempo libero coltivano la terra. Dove finisce l’industria cominciano i campi». Poi, negli anni 70, anche grazie all’interessamento del notabile Dc Remo Gaspari, la Fiat decide di investire in Abruzzo. Nasce la Sevel, una joint venture con la Psa Peugeot, che ha anche uno stabilimento in Francia e in Turchia. Ma il Lingotto chiede qualcosa in cambio: i sindacalisti lo chiamano “accordo ’81”, un’intesa che esonera la Fiat dall’obbligo di far valere anche in Val di Sangro i diritti conquistati negli altri stabilimenti: ai metalmezzadri abruzzesi non si applicheranno gli stessi trattamenti salariali, né la stessa tempistica, stabilita a Torino nel ’71, dopo il biennio delle lotte operaie. «Solo nel 2005, dopo una lotta durata diversi mesi, con cortei interni e licenziamenti, la Fiat concede gli stessi trattamenti validi in tutto il Paese». In cambio, però, vuole flessibilità: sempre nel 2005 impresa e sindacati firmano un accordo che regola l’ingresso dei lavoratori precari: 24 mesi da interinali, 12 con contratti a termine, prima dell’assunzione a tempo indeterminato. L’azienda ha bisogno di manodopera, si progettano e realizzano investimenti nei macchinari per 158 milioni di euro, solo negli ultimi tre anni la Sevel assume 3mila persone. Il sindacato è ben disposto a contrattare, sabati lavorativi e straordinari. Questo ottobre, però, si ferma tutto. Dinanzi ai primi mancati rinnovi il sindacato chiede di creare un bacino per gli interinali e di rinnovare il contratto ai Cat, per dare loro la possibilità di godere della cassa integrazione. La Sevel non ci sta, e rompe il tavolo. «Ci dicono che si tratta solo di una crisi strutturale, che il progetto di produrre 300mila furgoni rimane in campo. Ma allora, perché non assumono i precari», si chiede Di Rocco. E si dà una risposta: «La Sevel ha chiesto ordini a Torino. E il Lingotto ha risposto di affrontare la crisi con durezza. Vogliono approfittare della crisi per riorganizzarsi. Dunque sale la saturazione, in media dal 90 al 95 per cento, vanno via i precari. E non mi stupirei se, con due lire di incentivo, manderanno in mobilità i più anziani. Per tenere alto, quanto il vento sarà cambiato, il numero di precari. Diversamente ne avrebbero dovuto assumere a tempo indeterminato la gran parte, entro il 2009». Ma a pagare la crisi non saranno solo gli atipici della Sevel. «L’azienda è passata da una produzione di 1.270 furgoni al giorno agli attuali 1.030. Il prossimo anno potrebbe abbassare l’asticella a 900. A questi livelli l’indotto presente nella valle sarebbe costretto a chiudere. Lavorano in just in time: la Sevel comunica in tempo reale gli ordinativi di cui ha bisogno, ogni anno a un prezzo più basso. L’indotto si adegua. Ma sotto una certa soglia per le fabbriche nate intorno allo stabilimento rimanere qui non sarebbe più conveniente».
Eppure Chieti un’idea di come uscire dalla crisi ce l’ha, e chiara. Alcuni mesi fa la Confindustria, i sindacati e gli enti locali, a partire dalla Provincia, hanno firmato un accordo per portare in Val di Sangro un “Campus dell’innovazione dell’automotive”, affiancando all’attività manifatturiera della valle quella di ricerca tecnologica e di progettazione. Nel consiglio provinciale di Chieti, aperto alle parti sociali si discute di questo: non solo della crisi, ma anche di come superarla, a partire dagli investimenti in ricerca e in motori ecologici. Il consiglio ascolta gli interventi dei sindacati, di Confindustria, dei commercianti e degli artigiani, e alla fine approva un ordine del giorno, che chiede al governo interventi più decisi sugli ammortizzatori sociali. E una sicurezza sui fondi Fas (Fondo aree sottosviluppate), 40 miliardi già varie volte rosicchiati da Tremonti per finanziare i buchi dei Comuni, il taglio dell’Ici o l’incremento del fondo per l’occupazione. Al governo il Consiglio provinciale di Chieti chiede di «evitare ogni ulteriore taglio, come quello operato due settimane fa, che è costato al solo Abruzzo oltre 40 milioni di euro». «Noi abbiamo fatto una scommessa e ci crediamo, nonostante la situazione economica. Ma la crisi noi non la controlliamo. Certo, i fondi per la cassa integrazione sono un’emergenza, ma cosa succederà al nostro progetto se il governo continuerà ad usare i fondi Fas come una cassaforte, a cui attingere al momento del bisogno?», si chiede nei corridoi del palazzo della Provincia Raffaele Trivilino, coordinatore tecnico del parco dell’automotive.
«Non era così fino a poco tempo fa: l’azienda è cambiata con l’arrivo dei precari. Entrano qui con un solo obiettivo: arrivare al posto fisso». Davanti al bar della Sevel, poco prima dell’inizio del turno delle 22 - quello dei vampiri, li operai che scelgono di far sempre la notte per guadagnare 300 euro in più - due delegati della Fiom si fermano a chiacchierare. «Per questo non riusciamo a contattarli, a farli avvicinare al sindacato. Hanno paura di noi e non si fidano, perché non siamo in grado di proteggerli. Spesso veniamo a sapere dei loro problemi da un vicino a tempo indeterminato. Non è un caso se qui il tasso di iscrizione al sindacato è sotto il 50 per cento, e se questa azienda continua a votare no agli accordi, dall’ultimo contratto dei metalmeccanici al referendum sul welfare», spiega uno di loro. «Nel mio reparto c’era un problema nel meccanismo di aggancio della batteria. È una macchina che pesa 30 chili, è facile farsi male. Ne ho parlato col capo dell’unità tecnologica per un anno intero e lui mi ha sempre risposto: “Non c’è alcun problema”. Poi, dopo la mia ennesima segnalazione, ci ha messo a lavorare un interinale. Allora ho perso le staffe e ho proclamato un’ora di sciopero. L’interinale, ovviamente, non ha partecipato, ma almeno si è sentito protetto. Due miei colleghi, che avevano partecipato alla protesta, invece, sono stati spostati di reparto», racconta un delegato Fiom al montaggio. «Li abbiamo visti entrare, abbiamo spiegato loro il lavoro, li abbiamo visti crescere. Ora rischiano di andare tutti via. Forse abbiamo sbagliato, non abbiamo avuto coraggio, non abbiamo vigilato abbastanza». Adesso si torna a scioperare, però. «Non sarà facile. La protesta del 12 cade proprio nell’ultimo giorno di lavoro. Per chi è in cassa integrazione non è facile decidere di perdere 100 euro. Però non si può fare altrimenti. Oramai anche i tempi indeterminati hanno paura», afferma un delegato. Gli operai cominciano ad arrivare, con decine di pullman e le loro auto private, alla spicciolata. Il piazzale silenzioso si riempie, come in città all’ora di punta. Molte sono donne. Li accompagnano i mariti e fratelli. Scendono proprio davanti ai cancelli e corrono dentro per difendersi dalla pioggia. Poi inizia l’uscita. Gli operai sotto la guardiola prendono ognuno una copia della Stampa, del giorno che sta per finire. L’ultimo regalo del padrone. Che, ricordano tutti, è nato proprio a Chieti, 56 anni fa. Chissà se Sergio Marchionne se ne ricorda ancora.

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